Corriere della Sera - La Lettura
La terza via della globalizzazione
Per Dani Rodrik ipermondialismo e sovranismo non sono le sole possibilità: «La tirannia del “non ci sono alternative” è finita». Ma il ruolo dello Stato-nazione va definito
L’allarme oltre vent’anni fa Già nel 1997 l’autore denunciò gli effetti potenzialmente nefasti della globalizzazione selvaggia. Ma fu inascoltato
Se c’è qualcuno che possa oggi leg i t t i mamente e s c l a mare « ve l’avevo detto!» di fronte alla recente ondata sovranista, questi è indubbiamente Dani Rodrik. Era il lontano 1997 allorché il professore di Harvard pubblicò un saggio dal titolo assai eloquente ( Has Globalization Gone
Too Far? «La globalizzazione è andata troppo lontano?») che denunciava gli effetti potenzialmente nefasti di una globalizzazione selvaggia. Rimasto all’epoca largamente inascoltato, Rodrik si è poi imposto come uno dei più autorevoli critici del «consenso iperglobalista». Einaudi pubblica oggi la traduzione del suo ultimo volume ( Straight Talk on Trade) che raccoglie, riaggiornandoli, i commenti pubblicati dallo studioso sul sito «Project Syndicate» fra il 2011 e il 2017: un periodo costellato di eventi drammatici che hanno definitivamente affossato il mito della «globalizzazione felice».
Il messaggio del libro è chiaro: pur essendo stati da sempre coscienti degli effetti redistributivi della globalizzazione (che crea molti vincitori ma anche moltissimi vinti), gli economisti non ne hanno mai parlato fuori dai circoli accademici, perdendo credibilità agli occhi delle opinioni pubbliche. Perché? Temevano che criticare la globalizzazione avrebbe fornito munizioni ai demagoghi sovranisti. Gravissimo errore: è stata la dittatura del «pensiero unico» ad alimentare gli estremismi. Ma giunti al punto di non ritorno in cui siamo oggi, sostiene Rodrik, «non c’è più motivo per cedere alla tirannia del “non ci sono alternative”». Non esiste una scelta binaria fra iperglobalismo e sovranismo, fra Clinton e Trump, fra Macron e Le Pen: una «terza via» è possibile. L’autore ripresenta quindi una serie di proposte, elaborate da lui nel corso degli anni, per rendere la globalizzazione più «intelligente».
Se la maggior parte delle posizioni di Rodrik paiono di grande buon senso, qualche perplessità sollevano i suoi presupposti sulle forme dell’azione colletti- va. Dopo aver lungamente discusso degli inevitabili conflitti fra le diverse appartenenze politiche dei cittadini (locale, nazionale, globale), Rodrik raggiunge infatti una conclusione sorprendente, se non contraddittoria: l’unica dimensione in cui l’azione politica può davvero esplicarsi è quella dello Stato-nazione. Eppure, se è senz’altro vero che lo Stato-nazione rimane a tutt’oggi l’istituzione depositaria della sovranità formale, non è affatto chiaro perché tutte le decisioni sostanziali dovrebbero necessariamente essere prese dai cittadini su base nazionale.
Questo problema è manifesto nei capitoli consacrati all’Europa. Per Rodrik, o l’Ue deciderà di trasformarsi in un vero e proprio Stato (cosa assai improbabile, vista l’impopolarità di cui essa gode attualmente), o sarà inevitabilmente condannata all’implosione. L’economista dimostra di avere una visione stilizzata (e, a tratti, caricaturale) della costruzione europea: lo si evince chiaramente allorché sostiene che il precedente storico più prossimo ad essa sarebbe il fallimentare sistema monetario del periodo tra le due guerre mondiali. Si tratta di una visione radicata al di là dell’Atlantico (e non solo), condivisa da luminari quali Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Lo abbiamo toccato con mano a Sciences Po Toulouse, dove l’anno scorso abbiamo accolto alcuni allievi della Kennedy School of Government di Harvard in cui Rodrik insegna: gli studenti sono rimasti sbalorditi nell’apprendere l’intrinseca ratio del progetto europeo. La quale, come provato da studiosi quali l’euroscettico storico britannico Alan Milward, è sempre consistita non in un superamento, bensì (al contrario!) in un «salvataggio» dello Stato-nazione: allorché la taglia degli Stati europei divenne manifestamente troppo piccola per consentire loro di esercitare una sovranità sostanziale, l’unica via per continuare ad essere «padroni del proprio destino» consistette nella coordinazione sovranazionale delle politiche nazionali. Non a caso, il progetto europeo fu plasmato in primis dalla Francia, un Paese la cui élite mai fece mistero di iscrivere le proprie finalità entro un orizzonte prioritariamente nazionale.
Perché dunque l’Ue dovrebbe per forza essere condannata a divenire un «superStato» o a perire? Non esiste forse una «terza via» anche per l’Europa? Perché creare una stretta coincidenza fra sovranità e nazione, allorché (come suggerito dalle teorie del federalismo fiscale) il livello decisionale ottimale non è sempre necessariamente quello nazionale? Proprio dall’esperimento europeo, che non conosce simili al mondo, potrebbe un giorno scaturire una soluzione al «trilemma di Rodrik» (l’impossibile coesistenza di globalizzazione, sovranità e democrazia): soluzione che lo stesso professore di Harvard non ha mai davvero saputo delineare nitidamente. E in effetti (questa è forse la più grande novità degli ultimi tempi), finalmente in Europa l’azione collettiva comincia ad estrinsecarsi a livello comunitario: ne è prova l’importanza inedita che le forze politiche nazionali (e, paradossalmente, soprattutto quelle sovraniste) stanno accordando alle prossime elezioni europee.
Nonostante alcuni giudizi che potranno apparire discutibili e un’argomentazione non sempre del tutto lineare, il volume resta comunque una lettura di grande interesse, capace di offrire preziosi spunti di riflessione sui temi della più pressante attualità politica.